George Gershwin e il jazz contemporaneo

George Gershwin e il jazz contemporaneo

Por Guido Michelone

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Sinopsis

Un innovatore Arnold Schonberg, il padre indiscusso della musica dodecafonica, quando dalla Germania nazista fugge negli Stati Uniti, trova decine di ammiratori fra i musicisti che gli chiedono che impartisca lezioni di armonia o altro ancora. Schonberg è severissimo e ai suoi corsi boccia persino un allievo geniale (poi rivelatosi un genio davvero) quale John Cage, ritenendolo un millantatore per le posizioni troppo estremiste. La visione musicale di Schonberg è altrettanto austera: ritiene ad esempio Igor Stravinskij troppo convenzionale; tuttavia nei confronti di George Gershwin ha parole di sincero encomio: “Che Gershwin sia stato un innovatore – dice infatti Schonberg – mi sembra evidente. Ciò che ha saputo trarre dal ritmo, dall’armonia e dalla melodia non costituiscono solo uno stile: è qualcosa di fondamentalmente diverso dal manierismo di tanti compositori cosiddetti “colti”. Basterebbero queste parole a chiudere (o aprire?) un discorso, anche perché George Gershwin per il sottoscritto è, anzitutto, un grande musicista che dovrebbe essere conosciuto, amato e rispettato da tutti: in primis quelli che si occupano di jazz e poi via via fans, appassionati, critici, studiosi, musicologi, spaziando dal pop alla classica. Ovviamente il discorso riguarda anche i musicisti, i quali, però, conoscono già bene un certo Gershwin, quello dei brani composti per il teatro musicale – ‘le canzoni’ come egli stesso ama definirle sin dall’inizio, circa settecento in tutto, scritte grosso modo nell’arco di un ventennio – e poi negli anni divenuti celeberrimi standard per il jazz medesimo o entrati nel repertorio classico, non senza essere ritenuti splendidi evergreen popolari (anche nel senso di pop). Un altro Gershwin Ma c'è anche un altro Gershwin che, salvo rarissime eccezioni, viene un po' rimosso dalle ultime (e penultime) generazioni di musicisti e ascoltatori: è il Gershwin dotto che compone ‘soltanto’ otto lavori ‘colti’ da un paio di unicum come il melodramma Porgy And Bess e la jazz-opera Blue Monday ai sette episodi sinfonici (realizzati lungo un decennio) Rhapsody In Blue, An American In Paris, Piano Concert In F, Cuban Ouverture, Second Rhapsody, Variations On ‘I Got Rhythm’, Three Preludes e altre testimonianze ‘minori’ (spesso postume). Si tratta di un Gershwin la cui musica, all’epoca, viene presentata in America come jazz, creando un equivoco che oggi si sta trasformando in chiusura totale (da parte di certi jazzofili e di taluni classicisti) verso un Autore con la A maiuscola che, con estrema lungimiranza, anticipa tantissime moderne (e postmoderne) contaminazioni tra jazz e classica. Certo, il Gershwin ‘sinfonico’ non è jazz in senso stretto e non lo sarà mai! Tuttavia quel Gershwin contiene, indirettamente, molto più jazz di quanto non pensino jazzofili e classicisti che continuano a snobbarlo (giungendo addirittura a non citarlo nelle rispettive storie della musica jazz e della musica classica), ritenendolo un compositore incompleto o anomalo e dunque lontanissimo da un lato dal mondo naif, bohemien, maudit, e di recente, anche un po’ beat generation dei jazzisti di ieri e di oggi; e diversissimo, dall’altro, dal microcosmo rigoroso, chiuso, paludato della produzione colta. Infatti, paradossalmente, proprio sul versante opposto al pop, fino a non pochi anni fa, Gershwin viene pure rifiutato dai cultori della classica (persino dalla cosiddetta musica contemporanea) che, superficialmente, lo giudicano ingenuo o semplicistico dal punto di vista armonico, senza capire dove si trovano gli elementi autenticamente innovativi. Tuttavia, a modesto parere del sottoscritto, Gershwin incarna la vera essenza della musica statunitense, che non è una sola, ma è comunque musica di contaminazioni e di sincretismi (come tutte le altre arti americane). Tratto dall'Introduzione

Guido Michelone


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